mercoledì 13 maggio 2009

Cristina Donà - Universo (Slide show)

miliardi di segnali che accendono.. l'immensità

sabato 9 maggio 2009

timesonline

Il socialismo ha fallito, il capitalismo è in bancarotta. Cosa succederà adesso?

Qualunque logotipo ideologico adottiamo, lo spostamento dal mercato libero all'azione pubblica dovrà essere molto maggiore di quanto i politici immaginano.

di Eric Hobsbawm, The Guardian, tradotto per Senzasoste da Andrea Grillo

Il XX secolo è già alle nostre spalle, ma non abbiamo ancora imparato a vivere nel XXI, o almeno a pensarlo in modo appropriato. Non dovrebbe essere così difficile come sembra, dato che l'idea fondamentale che ha dominato l'economia e la politica nel secolo scorso è scomparsa, chiaramente, nel tubo di scarico della storia. Avevamo un modo di pensare le moderne economie industriali -in realtà tutte le economie-, in termini di due opposti che si escludevano reciprocamente: capitalismo o socialismo.
Abbiamo vissuto due tentativi pratici di realizzare entrambi i sistemi nella loro forma pura: da un lato le economie a pianificazione statale, centralizzate, di tipo sovietico; dall'altro l'economia capitalista a mercato libero esente da qualsiasi restrizione e controllo. Le prime sono crollate negli anni '80, e con loro i sistemi politici comunisti europei; la seconda si sta decomponendo davanti ai nostri occhi nella più grande crisi del capitalismo globale dagli anni '30 ad oggi. Per certi versi è una crisi più profonda di quella, nella misura in cui la globalizzazione dell'economia non era a quei tempi così sviluppata come oggi e la crisi non colpì l'economia pianificata dell'Unione Sovietica. Ancora non conosciamo la gravità e la durata della crisi attuale, ma non c'è dubbio che vada a segnare la fine di quel tipo di capitalismo a mercato libero che si è imposto nel mondo e nei suoi governi nell'epoca iniziata con Margaret Thatcher e Ronald Reagan.
L'impotenza, quindi, minaccia sia coloro che credono in un capitalismo di mercato, puro e destatalizzato, una specie di anarchismo borghese; sia coloro che credono in un socialismo pianificato incontaminato dalla ricerca del profitto. Entrambi sono in bancarotta. Il futuro, come il presente e il passato, appartiene alle economie miste dove il pubblico e il privato siano reciprocamente vincolati in un modo o nell'altro. Ma come? Questo è il primo problema che si pone oggi a noi tutti, e in particolare a quelli di sinistra.
Nessuno pensa seriamente di ritornare ai sistemi socialisti di tipo sovietico, non solo per le loro carenze politiche ma anche per la crescente indolenza e inefficienza delle loro economie, anche se questo non deve portarci a sottovalutare le loro impressionanti conquiste sociali ed educative. D'altro canto, finché il mercato libero globale non è esploso l'anno scorso, anche i partiti socialdemocratici e moderati di sinistra dei Paesi del capitalismo del Nord e dell'Australasia si erano impegnati sempre di più nel successo del capitalismo a mercato libero. Effettivamente, dal momento del crollo dell'URSS ad oggi non ricordo nessun partito o leader che denunciasse il capitalismo come una cosa inaccettabile. E nessuno era così legato alle sue sorti come il New Labour, il nuovo laburismo britannico. Nella sua politica economica, tanto Tony Blair che Gordon Brown (e questo fino all'ottobre del 2008) potevano essere definiti senza alcuna esagerazione come dei Thatcher in pantaloni. E lo stesso vale per il Partito Democratico degli Stati Uniti.
L'idea fondamentale del nuovo Labour, a partire dal 1950, era che il socialismo non fosse necessario, e che si poteva aver fiducia che il sistema capitalista facesse fiorire e generare più ricchezza di qualsiasi altro sistema. I socialisti non dovevano fare altro che garantire una distribuzione egualitaria. Ma a partire dal 1970 la crescita accelerata della globalizzazione creò sempre più difficoltà e sgretolò fatalmente la base tradizionale del Partito Laburista britannico, e per la verità alle politiche di aiuto e sostegno di qualsiasi partito socialdemocratico. Molte persone, negli anni ‘80, pensarono che se la nave del laburismo non voleva colare a picco, cosa che era una possibilità reale, dovesse mettersi al passo con i tempi.
Ma non fu così. Sotto l'impatto di quello che vedeva come la rivitalizzazione economica thatcherista, il New Labour, a partire dal 1997, si bevve tutta l'ideologia, o piuttosto la teologia, del fondamentalismo del mercato libero globale. Il Regno Unito deregolamentò i suoi mercati, vendette le sue industrie al miglior offerente, smise di fabbricare beni per l'esportazione (a differenza di Germania, Francia e Svizzera) e puntò tutto sulla sua trasformazione in centro mondiale dei servizi finanziari, e di conseguenza in paradiso dei riciclatori multimilionari di denaro. Così l'impatto attuale della crisi mondiale sulla sterlina e l'economia britannica sarà probabilmente più catastrofico di quello su ogni altra economia occidentale e questo renderà la guarigione più difficile.
E' possibile affermare che ormai tutto questo è acqua passata. Che siamo liberi di tornare all'economia mista e che la vecchia scatola degli attrezzi laburista è qui a nostra disposizione -compresa la nazionalizzazione-, così che non dobbiamo far altro che utilizzare di nuovo questi attrezzi che il New Labour non avrebbe mai dovuto smettere di usare. Comunque questa idea fa pensare che sappiamo come usare questi attrezzi. Non è così.
Da un lato non sappiamo come superare l'attuale crisi. Non c'è nessuno, né i governi, né le banche centrali, né le istituzioni finanziarie mondiali, che lo sappia: tutti questi sono come un cieco che cercasse di uscire da un labirinto dando colpi alle pareti con bastoni di ogni tipo nella speranza di trovare la via d'uscita.
Dall'altro lato sottovalutiamo il persistente grado di dipendenza dei governi e dei responsabili delle politiche dai dogmi del libero mercato, che tanto piacere gli hanno regalato per decenni. Si sono forse liberati del principio fondamentale per cui l'impresa privata orientata al profitto è sempre il mezzo migliore e più efficace di fare le cose? O che l'organizzazione e la contabilità imprenditoriali dovrebbero essere i modelli anche per la funzione pubblica, l'educazione e la ricerca? O che il crescente abisso tra i multimilionari e il resto della gente non sia tanto importante, dopotutto, sempre che tutti gli altri -eccetto una minoranza di poveri- stiano un po' meglio? O che quello di cui ha bisogno un Paese, in qualsiasi caso, è il massimo di crescita economica e di competitività commerciale? Non credo che abbiano superato tutto questo.
Comunque una politica progressista richiede qualcosa in più di una rottura più netta con i principi economici e morali degli ultimi 30 anni. Richiede un ritorno alla convinzione che la crescita economica e l'abbondanza che comporta siano un mezzo, non un fine. Il fine sono gli effetti che ha sulle vite, le possibilità vitali e le aspettative delle persone.
Prendiamo il caso di Londra. E' evidente che a tutti noi importa che l'economia di Londra fiorisca. Ma la prova del fuoco dell'enorme ricchezza generata in qualche parte della capitale non è il fatto di aver contribuito al 20 o 30% del PIL britannico, ma come questo ha influito sulle vite dei milioni di persone che vivono e lavorano lì. A che tipo di vita hanno diritto? Possono permettersi di vivere lì? Se non possono, non è per niente una compensazione il fatto che Londra sia un paradiso dei super-ricchi. Possono ottenere posti di lavoro pagati decentemente, o nella realtà un lavoro qualsiasi? Se non possono, a che serve tutto questo affannarsi per avere ristoranti da tre stelle Michelin, con chef diventati essi stessi stelle. Possono mandare i loro figli a scuola? La mancanza di scuole adeguate non si compensa con il fatto che le Università di Londra possano allestire una squadra di calcio fatta di vincitori di premi Nobel.
La prova di una politica progressista non è privata ma pubblica, non solo importa l'aumento del reddito e del consumo dei privati ma l'ampliamento delle opportunità e, come le chiama Amartya Sen, delle capabilities -capacità- di tutti per mezzo dell'azione collettiva. Ma questo significa -deve significare- iniziativa pubblica senza fini di profitto, neanche se fosse solo per redistribuire l'accumulazione privata. Decisioni pubbliche dirette a conseguire un miglioramento sociale collettivo dal quale tutti ne guadagnerebbero. Questa è la base di una politica progressista, non la massimizzazione della crescita economica e del reddito personale.
In nessun ambito questo sarà più importante che nella lotta contro il problema più grande che ci troviamo ad affrontare in questo secolo: la crisi dell'ambiente. Qualsiasi logotipo ideologico adottiamo, ciò significherà uno spostamento di grandi dimensioni dal libero mercato all'azione pubblica, un cambiamento più grande di quello proposto dal governo britannico.
E, tenuto conto della gravità della crisi economica, dovrebbe essere uno spostamento rapido. Il tempo non è dalla nostra parte.

(8 maggio 2009)

martedì 5 maggio 2009

Impregilo

imprimitelo in mente.

giovedì 2 aprile 2009

paradisi fiscali? thiè!

G20: ACCORDO TRA LEADER, DECISA FINE PARADISI FISCALI
finalmente!

domenica 22 marzo 2009

Khadijeh Saqafi, la madre della rivoluzione islamica


2009-03-21 15:48
Iran: morta la vedova di Khomeini
Era soprannominata 'la madre della rivoluzione islamica'
(ANSA) - ROMA, 21 MAR - La vedova dell'ayatollah Ruollah Khomeini, Khadijeh Saqafi, e' morta questa mattina a Teheran a 93 anni dopo una lunga malattia. Lo rende noto l'agenzia iraniana Press Tv nella sua edizione on line. La moglie del fondatore della Repubblica islamica, che con lui ha avuto due figli e tre figlie, e' morta in ospedale. I funerali si terranno domani e il corpo sara' seppellito nel mausoleo dedicato a Khomeini. Era soprannominata 'la madre della rivoluzione islamica'.



Mother of Revolution laid to rest
Sun, 22 Mar 2009

The wife of the late leader of the Islamic Revolution is laid to rest after a funeral procession in which Iranian people and officials attended.
IRIB reported on Sunday that government and military figures, along with followers of the late Imam Khomeini, participated in the ceremony, commemorating Khadijeh Saghafi, the wife of the late leader of the Islamic Revolution, in the capital Tehran.
The body was carried from her home in Jamaran to southern Tehran and put to rest in the mausoleum of Imam Khomeini.
Khadijeh Saghafi, called the ‘Mother of Islamic Revolution’, passed away at the age of 93, on Saturday morning after a long period of illness.
The Leader of the Islamic Revolution, Ayatollah Sayyed Ali Khamenei, expressed his condolences to the people of Iran and the household of that honoured lady, especially her brothers and her grandson Hasan Khomeini.
The Leader said the lady, a descendant of a scholarly family, had supported the late Leader of the Islamic Revolution his whole life, on his path of jihad, and lived her life respectably.
Earlier, President Mahmoud Ahmadinejad and Chairman of Iran’s Expediency Council, Ali-Akbar Hashemi Rafsanjani expressed their condolences in two separate statements.
Khadijeh Saghafi married the future leader of the Islamic Revolution in 1931.
Her eldest son Mostafa was murdered in 1977 while in exile with his father in the Iraqi city of Najaf. His murder is believed to have been carried out by SAVAK, the intelligence service of Iran’s former regime.

venerdì 20 marzo 2009

Luigi De Magistris e Antonio Massari a Treviso

per chi fosse intressato, vi segnalo:
Luigi De Magistris e Antonio Massari a Treviso il 20 Marzo ore 20.30
Aula Magna dell'Istituto Tecnico "E.Fermi". Via di San Pelaio, 37. Treviso, TV

sabato 7 marzo 2009

I due compleanni


Tiziana il 24, io il 26 gennaio. E sono 31.
Arrivate ai 40, manca ancora, ma non poi così tanto, daremo il via al conto alla rovescia!
39, 38, .., 31, 30. E poi ancora, 31, 32..
Gli enta sono l'intervallo temporale perfetto.
Si, perfetto.
eheh. ahah.
cazzatina della serata.

lunedì 26 gennaio 2009

Gioacchino Genchi

IL PERSONAGGIO. Nell'archivio del tecnico nessun dialogo, solo analisi
Nel suo ufficio di Palermo da quindici anni lavora per le principali Procure
Dalla mafia al fronte-De Magistris
le ombre del "sistema" Genchi
Quando la Boccassini, indagando su Capaci, disse: "O lui o io"
di GIUSEPPE D'AVANZO

Dalla mafia al fronte-De Magistris le ombre del "sistema" Genchi

Gioacchino Genchi
Berlusconi è pronto per il blitz (un decreto del governo in forma di legge?) che sottrarrà alle indagini giudiziarie l'ascolto telefonico e ai pubblici ministeri l conduzione delle inchieste (saranno "avvocati della polizia"). Per far ingoiare ai suoi alleati recalcitranti e all'opinione pubblica il provvedimento, intorbida le acque. Modifica i fatti. Capovolge la verità. Grida di "intercettazioni". Annuncia "uno scandalo che sarà il più grande della Repubblica".

Qual è l'"inquietante" novità che dovrebbe farci saltare sulla sedia? La vergogna sarebbe custodita nell'archivio di Gioacchino Genchi, un vicequestore della polizia di Stato (in aspettativa sindacale da un quindicennio), consulente di un rosario di procure e, per ultimo di Luigi De Magistris nelle inchieste Why not? e Poseidone. E' utile dunque, all'inizio di una settimana dove saranno raccontate rumorose "bufale", fissare qualche punto fermo, illuminare il lavoro di Genchi, avanzare infine qualche domanda.

Punti fermi, tre.
1. Berlusconi mente. Nell'archivio di Genchi non c'è alcuna intercettazione telefonica, ma soltanto analisi di tabulati telefonici. Per le due inchieste di De Magistris, e su sua delega, Genchi ha messo insieme 1.042 tabulati, un milione di contatti, 578 mila schede anagrafiche.
2. Berlusconi ritrova troppo tardi la parola e la memoria senza mai perdere la sua malafede. Non ha battuto ciglio quando si sono scoperti gli archivi illegali della Telecom dell'amico Marco Tronchetti Provera (anche lì, si raccoglievano abusivamente tabulati e si intercettavano mail). Non ha emesso un fiato quando il suo nemico Romano Prodi è stato indagato proprio alla luce dell'analisi dei "dati di traffico della sim gsm 320740... intestata alla Delta spa presso la Wind, volturata il 1 aprile 2004, all'"Associazione l'Ulivo i Democratici" di Bologna, contratto trasferito il 17 febbraio 2005 a Roma in piazza Santi Apostoli 73, sede dell'Ulivo, e due mesi dopo alla Presidenza del Consiglio, via della Mercede 96, Roma". Scritto nero su bianco in una consulenza di Genchi. Dov'era allora l'indignazione di Berlusconi? Non ce n'era traccia. Quell'indagine poteva azzoppare il governo di centrosinistra e tutto faceva brodo. Anche il lavoro di Gioacchino Genchi.

3. I rumorosi strepiti di Berlusconi non rivelano nulla di quanto già non si conoscesse per lo meno da sedici mesi. "De Magistris ha acquisito migliaia di tabulati telefonici di cittadini le cui utenze (cellulari e di rete fissa) erano emerse tra i contatti di diversi suoi indagati - scrive la Stampa, il 4 ottobre 2007 - . Nell'elenco ci sono tra gli altri, il presidente del Consiglio Prodi, l'ex-presidente del Consiglio Berlusconi, il ministro dell'Interno Amato, e della Giustizia Mastella; il viceministro dell'Interno Minniti; il presidente del Senato Marini, l'ex-presidente della Camera Casini, il segretario dell'Udc, Cesa, il vecepresidente del Csm Mancino. I movimenti dei numeri telefonici acquisiti riguardano anche il capo della polizia De Gennaro, il vicecapo vicario De Sena, il direttore del Sisde Gabrielli, il direttore del Servizio di polizia postale e telecomunicazioni Vulpiani, il direttore della Dia, Sasso, il generale di corpo d'armata Piccirillo, il presidente dell'Anm Gennaro, il procuratore aggiunto di Milano Spataro, il pm antiterrorismo di Roma Saviotti, quattro sostituti della procura nazionale antimafia, diversi membri della commissione parlamentare antimafia, deputati, senatori, questori della Camera, presidenti di commissioni di Palazzo Madama". L'elenco (sempre smentito da De Magistris) mostra più di tante parole la strumentalità della sortita allarmata di Berlusconi. Ma come c'è anche il suo nome in quella classifica abusiva e Berlusconi non dice una parola, non protesta, non chiede spiegazioni? E se non si preoccupava allora, perché oggi parla di "scandalo storico"?

Il Cavaliere oggi ha compreso che l'"affare Genchi" può essere la leva per scardinare le resistenze che An, Lega, Pd oppongono al suo progetto di cancellare le intercettazioni dagli strumenti di indagine e fare del pubblico ministero il "notaio" delle polizie. Se non si dice, dunque, di Genchi - chi è, che cosa fa, come lo fa, grazie a chi - non si comprendono le ambiguità possibili del suo lavoro.

Il vice-questore in aspettativa Genchi, 49 anni, va su tutte le furie quando si parla di lui come di "un personaggio misterioso". Anche se cede al narcisismo quando lo si incontra nel sotterraneo di 500 metri quadrati, ipertecnologico, di piazza Principe di Camporeale, a Palermo (è un tormento riuscire a incontrarlo). A Genchi piace mostrarsi seduto al suo scrittoio, tra gli schermi di cinque grandi computer. Non è parco di parole. Il suo è un flusso verbale ininterrotto impastato di allusioni, suggerimenti, accenni, avvertimenti che risultano per lo più oscuri, indecifrabili. Si compiace del mistero che sollecita. Gli piace apparire un uomo che sa troppo cose indicibili, ma dicibilissime, se gli si sta troppo addosso. Se stimolato, Genchi racconta, ricorda, precisa a gola piena. Spiega di come sia stato lui il primo, nella polizia, "nonostante la forte vocazione umanistica", a darsi da fare con l'informatica, l'elettronica, la topografia applicata e i primi "teodoliti al laser", che solo Dio sa che cosa sono. E' un fatto che Vincenzo Parisi (capo della polizia) nel 1988 gli affida la Direzione della Zona Telecomunicazioni del ministero dell'Interno per la Sicilia occidentale. E' il suo trampolino di lancio, l'inizio di una parabola che lo porterà ad essere, prima con la divisa addosso poi da libero professionista, il ricercatissimo consulente delle procure, capace di "mappare" l'intera rete di relazioni telefoniche di un indagato. Controlla, per dire, quasi due miliardi di tracce telefoniche nell'indagine di via D'Amelio. Ricostruisce 1.651.584 contatti telefonici inseguendo una scheda utilizzata in 31 cellulari diversi per dimostrare i legami pericolosi di Totò Cuffaro, allora presidente della Regione siciliana. "Oggi - racconta Genchi - non è che facciamo più intercettazioni di un tempo, quelli che sono aumentati sono i telefoni. Anni fa c'era solo l'Etacs, il cellulare era uno solo. Ora per trovare un numero che interessa se ne cercano tanti, senza considerare il roaming degli Umts, con schede che si possono spostare da telefono in telefono e tanti gestori diversi dove si possono agganciare gli utenti con servizi telefonici diversi - messaggi, immagini, fax, video - ecco perché le richieste si sono moltiplicate".

Le richieste. E' questo lo snodo. Non c'è nulla di illegale nel lavoro di ricerca svolto da Genchi se è il pubblico ministero a chiederle per una necessità dell'indagine perché, prima o poi, dinanzi ai giudici e agli avvocati della difesa, il pm dovrà rendere conto dei suoi passi. Decisivo è allora il rapporto che Genchi crea con il pubblico ministero responsabile dell'inchiesta. O meglio, che il pm crea con il consulente. Genchi ha un'alta opinione di se stesso e del suo lavoro. Non tace che le sue perizie sono "già pezzi di sentenza". Gli piace, nei suoi resoconti alle procure, argomentare l'accusa, suggerire deduzioni, indicare nuove ipotesi investigative, chiedere il coinvolgimento nell'indagine di questo o di quello. Non tutti i pubblici ministero abboccano al suo amo. Nel 1993, Ilda Boccassini, quando indagava sulla strage di Capaci, non gradì che quel tecnico del pool investigativo si attardasse intorno ai contatti telefonici privati di Giovanni Falcone, che nulla avevano a che fare con l'inchiesta. E quando nel febbraio di quell'anno se lo trovò davanti che proponeva di "trattare" le carte di credito del magistrato ucciso, se ne liberò senza stare troppo a pensarci su. "O me o lui", disse.

"Il fatto è - racconta ancora un altro pubblico ministero - che Genchi arriva da te con un elenco di numeri di telefono che sono entrati in contatto con il cellulare o il telefono fisso del suo indagato. Ti chiede una delega per verificarli. E tu che diavolo ne puoi sapere se tra quei centinaia di numeri ce n'è uno che non ha nulla a che fare con il tuo "caso" e molto con le curiosità di Genchi? Questo è il motivo per cui preferisco non lavorare con lui, che è certamente il solo in Italia a sapere fare quelle analisi dei dati".
Conviene ripeterlo: tutto si decide nel rapporto tra il pm e Gioacchino Genchi. L'affare che Berlusconi vuole trasformare nel "più grande scandalo della storia della Repubblica" si riduce a queste domande: Genchi ha tradito la fiducia di Luigi De Magistris analizzando dati di traffico telefonico per cui non aveva ricevuto la delega del pubblico ministero? O ha tradito la sua fiducia facendogli firmare deleghe per numeri di telefono estranei all'inchiesta? O non è avvenuto nulla di tutto questo e le deleghe erano legittime e legittimi l'analisi dei dati e gli scrutinati? Lo deciderà ora la procura di Roma che, con ogni probabilità, ha ricevuto le "carte" da Catanzaro perché l'indagine coinvolge anche Luigi De Magistris, oggi giudice a Napoli (Roma è competente per i giudici di Napoli). In attesa del can can spettacolare che Berlusconi organizzerà nei prossimi giorni, questa storia ci dice fin da ora una verità che non dovrebbe piacere a Berlusconi. Ci indica quanto pericoloso sia separare il lavoro del pubblico ministero dall'attività della polizia giudiziaria. Una polizia, libera dal controllo della magistratura, potrà avere mano libera per ogni forma di spionaggio illegale. Naturalmente, nel caleidoscopio delle verità rovesciate di Berlusconi, questo è una ragione per privare il pm della responsabilità delle inchieste.